Il permesso di soggiorno potrà essere concesso allo straniero pregiudicato con figli sul territorio italiano, ma spetterà al giudice bilanciare l’interesse del bambino con le esigenze di tutela e salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale.
E’ quanto emerge dalla sentenza della Cassazione, Sezioni Unite civili, n. 15750 del 12 giugno 2019.
La vicenda
Il caso vedeva due coniugi di nazionalità albanese, richiedere al Tribunale per i minorenni, ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 31, comma 3, l’autorizzazione alla permanenza in Italia al fine di accudire i figli minori, i quali si trovano in territorio italiano.
A fondamento di tale richiesta, i ricorrenti avevano indicato la necessità dei minori di essere assistiti da entrambi i genitori, ma il Tribunale adìto, con decreto, aveva respinto il ricorso, ritenendo non sussistenti i gravi motivi che potrebbero giustificare l’autorizzazione richiesta. Anche la Corte territoriale, successivamente adìto, aveva rigettato il reclamo proposto dai coniugi, i quali, pertanto, ricorrevano per cassazione.
L’ordinanza di rimessione alle SS.UU.
La Prima Sezione della Suprema Corte, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere la questione se, in presenza di minore straniero che si trova nel territorio italiano, il comportamento del familiare incompatibile con la permanenza in Italia possa essere preso in considerazione solo ai fini della revoca dell’autorizzazione già concessa, secondo quanto previsto dall’art. 31, comma 3, t.u. immigrazione, o anche ai fini del diniego del rilascio dell’autorizzazione.
Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, chiamate a stabilire se, in presenza di minore straniero che si trova nel territorio italiano, l’art. 31, comma 3, attribuisca o meno rilevanza al comportamento del familiare che ha chiesto il rilascio dell’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia, se incompatibile con la sua permanenza in Italia.
La decisione
La Cassazione ha precisato che, l’autorizzazione alla permanenza o all’ingresso temporaneo in Italia, prevista dall’art. 31, comma 3, t.u. imm., è una misura di tutela e protezione del diritto fondamentale del minore a vivere con i genitori. Detta disposizione mira a salvaguardare il superiore interesse del bambino, nei casi in cui, l’allontanamento o il mancato ingresso di un suo familiare, potrebbe pregiudicarne gravemente l’esistenza. D’altra parte, l’interesse del familiare ad ottenere l’autorizzazione alla permanenza o all’ingresso nel territorio italiano, è garantito in quanto funzionale a tutelare lo sviluppo psicofisico del minore, che è il bene giuridico protetto dalla norma nonchè l’unica ragione del rilascio dell’autorizzazione.
Per risolvere il nodo interpretativo, le Sezioni Unite sono partite dal dato letterale della norma dell’art. 31, comma 3, che prevede la revocabilità ante tempus, dell’autorizzazione, non solo per l’intervenuta cessazione dei gravi motivi che ne avevano giustificato il rilascio, ma anche perché il familiare autorizzato, ha assunto condotte contrarie alle esigenze del minore oppure incompatibili con la sua permanenza in Italia.
Secondo tale disposizione, l’attività incompatibile con la permanenza in Italia rileva soltanto se sopravvenuta, ovvero in sede di revoca dell’autorizzazione già concessa, mentre è ininfluente se sussisteva al momento della richiesta di autorizzazione da parte del familiare, in fase di rilascio della stessa. Se la norma venisse così interpretata, cioè se si ritenesse, come sembra indicare l’ordinanza di rimessione, che, anche là dove vi siano comportamenti del familiare integranti un’attività concreta ed attuale incompatibile con la permanenza in Italia ed idonei a determinare la revocabilità dell’autorizzazione, detta condotta non potrebbe essere presa in considerazione dal Tribunale per i minorenni in fase di rilascio dell’autorizzazione, perché in quella fase, prevarrebbe sempre e comunque, l’interesse del minore.
Tuttavia, una simile lettura, porterebbe ad ammettere il rilascio di un’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza del familiare, anche in presenza di cause che potrebbero giustificarne l’immediata revoca. Pertanto, secondo il Collegio, è preferibile interpretare l’art. 31, comma 3, nel senso che la previsione delle attività del familiare incompatibili con le esigenze del minore o con la permanenza in Italia, si esplica, non solo nella fase successiva all’autorizzazione ma anche rileva, ab origine, nella fase di rilascio della stessa.
Inoltre, il legislatore ha introdotto l’ipotesi di attività del familiare incompatibili con la permanenza in Italia, per dar rilievo alle esigenze che riguardano l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, affidando al Tribunale per i minorenni, già al momento del rilascio dell’autorizzazione, un giudizio di bilanciamento tra la protezione del benessere psicofisico del minore, e la tutela delle citate esigenze di carattere nazionale; orbene, il diritto del minore a non essere privato della figura genitoriale fino ad allora presente nella sua vita di relazione non è assoluto, potendo risultare in concreto recessivo, qualora il familiare richiedente l’autorizzazione, abbia posto in essere un’attività incompatibile con la permanenza in Italia, tale da rappresentare una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale.
In effetti, il legislatore ha voluto perseguire l’interesse del minore, assicurandogli il godimento pieno del suo diritto fondamentale all’effettività della vita familiare e della relazione con i propri genitori, ma nel rispetto dell’esigenza di protezione dalla criminalità del Paese che offre accoglienza. A tal riguardo, l’art. 31, comma 3, sancisce che, in presenza dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, è previsto il rilascio dell’autorizzazione alla permanenza o all’ingresso del familiare come possibile “anche in deroga alle altre disposizioni del presente testo unico”.
Tale deroga, include gli artt. 4, comma 3, e 5, commi 5 e 5-bis, riferiti a soggetti con precedenti penali ostativi, derivanti in alcuni casi più gravi anche da sentenza di condanna non definitiva, o che siano considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato; tale deroga alle disposizioni che prevedono cause ostative all’ingresso o al soggiorno conseguenti a condanne penali dello straniero, comporta che l’autorizzazione ai sensi dell’art. 31, comma 3, t.u. imm. non può essere negata automaticamente, in base alla condanna per determinati reati.
Orbene, il legislatore, in presenza di gravi motivi connessi allo sviluppo psicofisico del minore che si trova in Italia, ha inteso dare priorità al bene della vita costituito dall’unità della famiglia e dalla reciproca assistenza tra i suoi membri in funzione del superiore interesse del minore, ritenendo che il distacco dal nucleo familiare, in presenza di un figlio minore bisognoso di essere assistito in Italia dal genitore, è decisione troppo grave perché sia collegata in senso generalizzato ed automatico ad una presunzione astratta di pericolosità assoluta, ovvero senza tener conto della situazione particolare sia del fanciullo sia del familiare richiedente l’autorizzazione alla permanenza o all’ingresso per un periodo di tempo determinato.
Quindi, il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, dovrà innanzitutto accertare se vi siano gravi motivi collegati allo sviluppo psicofisico del minore che si trova in Italia; dopo di che, in caso di compimento da parte del familiare istante, di attività incompatibili con la permanenza in Italia, potrà negare l’autorizzazione all’esito di un esame complessivo, svolto concretamente e non in astratto, della condotta del richiedente, giungendo ad una soluzione ispirata al bilanciamento dei contrapposti interessi nella soluzione concreta, in linea con le indicazioni che provengono dalla giurisprudenza costituzionale.
In particolare, secondo il Giudice delle leggi, la condanna di uno straniero non appartenente all’Unione Europea per determinati reati, può giustificare la previsione di un automatismo ostativo al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno, ma occorre pur sempre bilanciare, ai sensi dell’art. 3 Cost., da un lato, l’esigenza di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, nonché di regolare i flussi migratori e, dall’altro, di salvaguardare i diritti dello straniero, riconosciutigli dalla Costituzione.
Conclusioni
La Suprema Corte, ribaltando la decisione impugnata, ha accolto il primo motivo di ricorso, enunciando il seguente principio di diritto: “In tema di autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di minore straniero che si trova nel territorio italiano, ai sensi dell’art. 31, comma 3, t.u. immigrazione […], il diniego non può essere fatto derivare automaticamente dalla pronuncia di condanna per uno dei reati che lo stesso testo unico considera ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero; nondimeno la detta condanna è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto della istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore, al quale la detta norma, in presenza di gravi motivi connessi con il suo sviluppo psicofisico, attribuisce valore prioritario, ma non assoluto”.
Fonte: Altalex
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2019