
CASSAZIONE CIVILE 23 NOVEMBRE 2021 N. 36251
In caso di occupazione di un immobile “sine titulo”, il danno subito dal proprietario non può ritenersi “in re ipsa”, ma deve essere sempre provato, ancorchè attraverso il ricorso a presunzioni semplici, che comunque rivelino l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto, dovendo, inoltre, la liquidazione equitativa dello stesso compiersi sulla base di un prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza del pregiudizio nel caso concreto, essendo il giudice chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento.
È questo il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte nella ordinanza n. 35251 del 23 novembre 2021 (testo in calce), con la quale è stato accolto il ricorso di una società in una vertenza relativa al preliminare di un contratto di locazione immobiliare e al mancato rilascio del bene. Il giudice d’appello aveva rigettato la domanda ex articolo 2932 del c.c. e condannato la società occupante a rilasciare il bene, nonché a pagare mille euro al mese fino all’effettivo rilascio dell’immobile conteso a titolo di indennità di occupazione.
La vertenza è così giunta in Cassazione, dove la società ha lamentato il carattere arbitrario della liquidazione dell’indennizzo, nonchè la sostanziale configurazione del danno da occupazione “sine titulo” come “damnum in re ipsa”.
Sulla prima questione la Cassazione ha osservato che “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità”, a condizione che “la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24070). Inoltre, “al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo”, occorre “che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”” (Cass. Sez. 3, sent. 31 gennaio 2018, n. 2327, Rv. 647590-01).
Ne consegue che la liquidazione equitativa del danno risulta insindacabile in sede di legittimità, salvo che i criteri adottati “siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 25 maggio 2017, n. 13153, Rv. 644406-01) Diversamente, si configurerebbe il “vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6), nonchè quello “di violazione dell’art. 1226 c.c.” (Cass. Sez. 3, sent. 13 settembre 2018, n. 22272, Rv. 650596-01).
L’assenza di ogni motivazione, nel caso che occupa, sui criteri seguiti per la quantificazione del danno integra, pertanto, uno di quei casi definiti in dottrina di “equità cerebrina”, ovvero un modello di valutazione equitativa non rispondente alla previsione legale di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., secondo i quali “il giudice non può farsi guidare da concezioni personali o da mere intuizioni, col rischio di sconfinare nell’arbitrio”, avendo, invece, “il dovere di ispirarsi a criteri noti e generalmente accolti dall’ordinamento vigente, comportandosi come avrebbe fatto il legislatore se avesse potuto prevedere il caso”.
È fondata, conclude il giudice di legittimità, anche l’ulteriore doglianza, relativa all’identificazione, prima ancora che alla quantificazione, del danno.
Come già ribadito in altre pronunce della stessa Corte “nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato”.
Ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, “può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 25 maggio 2018, n. 13071. Rv. 648709-01).
Non è, dunque, escluso il ricorso alla prova per presunzioni – giacché esse costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva – e ciò costituisce la ragione del sostanziale “riallineamento” della giurisprudenza della Suprema Corte in tema di danno da occupazione di immobile “sine titulo”, rendendo non necessario – osserva la Cassazione – la rimessione della relativa questione alle Sezioni Unite.
Tuttavia, un “alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dall’allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto” (da ultimo, Cass., Sez. 3, ord. n. 7280 del 2021, cit.).
Fonte: Altalex
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