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Cambiare la serratura di casa ed impedire al coniuge di rientrare nell’abitazione può costar assai caro.
Tale comportamento, infatti, può configurare il reato di violenza privata.
Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 38910 depositata il 24 agosto 2018, fornendo una nuova lettura del reato di cui all’art. 610 c.p. (“Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”).
Nel caso di specie un soggetto (la moglie) aveva cambiato la serratura di un immobile di proprietà esclusiva del marito e aveva impedito a quest’ultimo di rientrarne in possesso.
Nelle motivazioni il Supremo Collegio concentra la sua analisi sull’elemento materiale del reato ed in particolare sulla violenza, quale modalità di condotta dell’agente per costringere altri a fare, tollerare o omettere una determinata cosa.
Occorre premettere che, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il delitto di cui all’art 610 c.p. si qualifica come reato d’evento e a forma vincolata: il fatto tipico consiste, infatti, nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mediante l’impiego di violenza o di minaccia.
Quanto al concetto di violenza rilevante – che è quello che in questa sede interessa – esso è costituito dall’esplicarsi di una qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale; non rileva, né la qualità dei mezzi adoperati, né che essi siano diretti o indiretti, di carattere materiale o psicologico, occorrendo solo l’idoneità di essi al raggiungimento dello scopo che è quello di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa.
Si parla di violenza in due diverse accezioni: violenza propria e violenza impropria. Per violenza “in senso proprio” deve intendersi quella fisica che si esplica direttamente sulla vittima, mentre quella “impropria“, si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui. Pacifica appare la configurabilità della violenza anche laddove essa non si indirizzi contro l’altrui persona, ma sulle cose, alla sola condizione che dispieghi un’effettiva incidenza costrittiva sulla volontà della vittima.
Tornando alla sentenza in commento, l’imputata, per mezzo del proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze, che l’aveva condannata alla pena di giustizia per il reato di cui all’art 610 c.p., oltre al risarcimento dei danni alla parte civile costituita.
La difesa deduceva, con il primo motivo, che nelle more del deposito dell’impugnazione erano maturati i termini di prescrizione, in subordine invocava l’applicabilità dell’art 131 bis c.p.
Con gli altri motivi, lamentava l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale, rilevando per quel che maggiormente ci interessa in questa sede, che non era configurabile nel caso di specie la cd. violenza impropria trattandosi di condotta meramente omissiva della donna, tradottasi nella mancata consegna delle nuove chiavi all’ex marito.
La sentenza commentata ribadisce invece che l’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione.
Tanto emerge pacificamente anche da un orientamento giurisprudenziale ormai costante secondo il quale, in applicazione del principio sopra detto, si ravvisa il delitto di violenza privata anche nella condotta di chi impedisce l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura (Cassazione penale sezione V, n. 4284 del 29.9.2015).
Alla luce di tali principi deve allora convenirsi che, impedire il rientro della persona offesa nella abitazione di cui è esclusivo proprietario, attraverso il cambio della serratura della porta di ingresso, configura quella condotta violenta richiesta dalla norma di cui all’art 610 c.p. idonea ad esercitare pressione sulla volontà di autodeterminazione altrui.
Tutti gli altri motivi invocati dalla difesa sono stati ritenuti dalla Corte inammissibili e privi di qualunque aggancio alla realtà processuale.
Il Supremo Collegio ha pertanto concluso confermando la sentenza impugnata, dichiarando inammissibile il ricorso proposto.
Fonte: Altalex
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2018