furbetti-del-cartellino-no-alla-particolare-tenuita-se-la-falsa-timbratura-e-un-abitudine
Con l’espressione “furbetti del cartellino” si è soliti alludere alla prassi dell’assenteismo sul lavoro, diffusa specialmente nell’ambito del pubblico impiego, che si realizza mediante la falsa timbratura del cartellino segnatempo; in pratica il dipendente timbra il cartellino o lo fa timbrare da un collega compiacente, figurando così in servizio, per poi assentarsi invece dal lavoro.
Sul piano giuridico questa condotta è inquadrabile nell’ambito del reato di truffa ex art. 640 c.p., aggravata ai danni dello Stato o di ente pubblico qualora si tratti appunto di dipendenti pubblici.
Quando la condotta sia ripetuta nel tempo, è applicabile a favore del dipendente la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto?
A questa domanda risponde la Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, con la sentenza 27 agosto 2018, n. 38997.
In particolare, il giudice della nomofilachia riserva la propria attenzione alla differenza tra la nozione di “concorso formale di reati” ex art. 81 c.p. e quella di “reato abituale”.
Nella vicenda in questione, l’imputato P.M. veniva condannato in primo grado di giudizio per il reato di truffa aggravata ex art. 640 c.p., poiché in qualità di medico dipendente della A.S.L. in molteplici occasioni si era allontanato senza giustificazioni dal posto di lavoro, facendo marcare il proprio badge identificativo in entrata o in uscita ad altre persone, arrecando in tal guisa un pregiudizio non solo economico al Servizio Sanitario Nazionale.
Nel giudizio d’impugnazione avverso la sentenza di condanna resa dal Tribunale di Brindisi, la Corte d’Appello di Lecce riformava la pronuncia solo quoad poenam, confermandola nel merito per il resto.
Contro tale provvedimento l’imputato ricorreva per Cassazione, riservando peculiare enfasi, tra i vari motivi posti a fondamento del gravame, alla violazione di legge consistente nell’omessa applicazione al caso di specie della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., da parte della Corte territoriale.
La difesa dell’imputato, infatti, ha evidenziato come la costante esegesi dell’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, fornita dalla Suprema Corte, non escluda l’applicabilità dello stesso all’imputato che abbia commesso più reati avvinti dal vincolo della continuazione ex art. 81 c.p.
Gli Ermellini, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso perché infondato, anche con riguardo a questo specifico motivo, stigmatizzano l’erronea sovrapposizione operata dalla difesa tra la nozione di reato continuato e quella di reato abituale.
Infatti, affinché si realizzi il concorso formale di reati, non occorre che la condotta penalmente rilevante posta in essere risulti abituale, ma è sufficiente che il soggetto agente abbia commesso una pluralità di reati, anche tra loro diversi, eppure inscrivibili nell’alveo di un medesimo disegno criminoso.
D’altra parte, atteso che la causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p. persegue una duplice finalità, non solo deflattiva del carico penale, ma anche di garanzia di adeguatezza e proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, il legislatore ha subordinato la sua operatività alla presenza congiunta di due requisiti: la particolare tenuità del danno e la non abitualità della condotta.
Inoltre, il comma 3 del menzionato art. 131-bis c.p. precisa cosa debba intendersi per “comportamento abituale” ai sensi della disciplina de qua, chiarendo che esso si configura quante volte <<l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate>>.
Quindi, l’art. 131–bis c.p. può trovare applicazione nei casi in cui emerga un unitario e ben definito disegno criminosa in capo al reo, che tuttavia non coincide con l’abitualità della condotta, come lumeggiato dalla norma stessa, nonché da numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità.
Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di merito abbiano correttamente qualificato il contegno criminoso dell’imputato come reato abituale, trattandosi della reiterazione in plurime occasioni della medesima condotta, consistente nel far timbrare ad altre persone il proprio badge, mentre egli risultava assente dal luogo di lavoro per tutta la durata del turno o per parte di essa.
Secondo l’iter argomentativo logico-giuridico che emerge dalla pronuncia in commento, quindi, considerata l’abitualità del contegno dell’imputato, difetterebbe uno dei due requisiti essenziali per l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 131-bis c.p.
Peraltro, solo per completezza espositiva, atteso il carattere cumulativo di tali requisiti, deve osservarsi che, in considerazione della molteplicità degli episodi e della rilevante durata delle assenze dell’imputato, il Supremo Collegio non ha ritenuto sussistente nemmeno il presupposto della particolare tenuità del danno arrecato al S.S.N., concludendo quindi per la non applicabilità al caso di specie della disciplina ex art. 131-bis c.p.
Fonte: Altalex
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OTT
2018