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News Giuridiche

Licenziamento per giusta causa: valenza probatoria delle email sulle quali si fondano le contestazioni disciplinari

Il licenziamento di un lavoratore per giusta causa è intimato dal datore di lavoro solo in presenza di gravi motivi, che devono essere supportati da adeguate, affidabili e piene prove. Quanto all’efficacia probatoria dei documenti informatici, l’art. 21, D.Lgs. n. 82/2005, nelle diverse formulazioni, ratione temporis vigenti, attribuisce l’efficacia prevista dall’art. 2702 c.c. solo al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, mentre è liberamente valutabile dal giudice, ai sensi del medesimo decreto (art. 20) l’idoneità di ogni diverso documento informatico, quale l’e-mail tradizionale, a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6425 depositata il 15 marzo 2018, la quale ha altresì precisato che la decisione impugnata non ha posto in discussione la sussistenza di una corrispondenza relativa all’indirizzo di posta elettronica del dipendente, sicché è da escludere una violazione dell’art. 2712 c.c., ma ha ritenuto non sussistenti elementi certi per far risalire il relativo contenuto e la paternità degli stessi al lavoratore licenziato. Trattasi di valutazione, espressione del principio del libero convincimento del giudice, non censurabile – ad avviso della Suprema Corte – in sede di legittimità.

Il licenziamento per giusta causa trae fondamento normativo nell’art. 2119 c.c. secondo cui “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente”.

Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento (1, l. fall.) dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda (194, l. fall.).

La norma in esame prevede la possibilità, per ciascuno dei contraenti, di recedere dal rapporto di lavoro, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto.

Presupposti della giusta causa
In questo contesto normativo, la giusta causa di licenziamento ricorre quando il lavoratore attua comportamenti di gravità tale da incidere in termini assolutamente negativi sul giudizio del datore di lavoro circa la sua idoneità ed affidabilità per quanto concerne la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Tale elemento sta assumendo particolare rilevanza sul piano delle conseguenze scaturenti dalla denuncia di fatti penalmente rilevanti, sotto due diversi profili:

Da un lato, l’approvazione della L. 30 novembre 2017, n. 179 che ha apportato alcune modifiche all’art. 6 del D.Lgs. n. 231/2001 – che disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche – le quali si concretano in un obbligo (peraltro non sanzionato ma che avrà importanti ripercussioni dal punto di vista organizzativo) – di implementare i modelli di organizzazione e di gestione degli enti e delle Società in modo da assicurare dei canali specifici di segnalazione degli illeciti o di violazione dei modelli stessi, assicurando all’autore della segnalazione anonimato e riservatezza e, soprattutto, il divieto di atti ritorsivi o discriminatori (quali sanzioni disciplinari, licenziamenti, trasferimento o mutamenti di mansioni) che, qualora posti in essere, sono per legge considerati nulli. La parte più rilevante delle novità riguarda certamente questo importante aspetto di gestione del rapporto di lavoro, perché comporterà in caso di controversie un onere di prova molto più incisivo e importante rispetto al passato a carico del datore di lavoro, al fine di mettere in evidenza che il provvedimento – organizzativo – adottato nei confronti del lavoratore sia indipendente dalla segnalazione di illeciti (sul punto cfr. in giurisprudenza Cass. Civ. 26 settembre 2017, n. 22375).

La seconda è quella introdotta dalla L. n. 205/2017 la quale all’art. 1, c. 217 e 218 inserisce due nuovi commi nell’art. 26 del D.Lgs. n. 198/2006 (il 3-bis e il 3ter) – Codice pari opportunità – i quali introducono alcune garanzie per i lavoratori che denuncino molestie o molestie sessuali sul luogo di lavoro, salvo il caso di accertata responsabilità del denunciante per diffamazione, anche con sentenza di primo grado. In particolare, la lavoratrice o il lavoratore che agiscano in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per molestia o molestia sessuale poste in essere in violazione dei divieti posti dal Codice non possono essere sanzionati, demansionati, licenziati, trasferiti o sottoposti ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinati dalla denuncia stessa. Il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto denunciante è nullo (art. 18, c. 1 L. n. 300/1970 e art. 2 D.Lgs. n. 23/2015). Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante.

Il licenziamento per giusta causa consente al datore di lavoro di interrompere, al termine del procedimento disciplinare, il rapporto di lavoro con effetto immediato senza alcun onere di preavviso nei confronti del lavoratore e ciò anche in presenza di cause sospensive del rapporto di lavoro quali, per esempio, la malattia (Cass., 26 aprile 2012, n. 6418, in Giust. civ. mass., 2012).

L’elemento fiduciario
Presupposto del licenziamento per giusta causa è che il lavoratore abbia posto in essere una condotta tale da ledere, in maniera irreparabile, la fiducia che il datore di lavoro ripone nei suoi confronti essendo, appunto, l’elemento fiduciario un requisito essenziale del rapporto di lavoro. Nella giurisprudenza di legittimità, sulla lesione dell’elemento fiduciario e sulla integrazione della giusta causa quale clausola generale, vedi, Cass. civ. 10 luglio 2018, n. 18172; Cass. civ. 10 luglio 2017, n. 23697; Cass. civ. 8 giugno 2017, n. 14319).

I comportamenti del lavoratore idonei a ledere il vincolo fiduciario sono sia quelli lesivi degli obblighi legali e degli obblighi contrattuali assunti nei confronti del datore di lavoro sia quelli posti in essere al di fuori dal contesto lavorativo e che esulano dalle obbligazioni assunte nei confronti del datore di lavoro ma a condizione che, per questi ultimi comportamenti, la loro gravità o il loro disvalore sociale siano idonei a minare il vincolo fiduciario (cfr. Cass., 4 dicembre 2013, n. 27129, in Giust. civ. mass., 2013 che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore coinvolto per vicende personali ed extralavorative in una sparatoria).

A giudizio della Suprema Corte, anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto (cfr., Cass., 7 novembre 2018, n. 28445; Cass., 1° luglio 2016, n. 13512).

La gravità dell’inadempimento
Altro presupposto necessario per configurare la giusta causa del licenziamento è rappresentato dal fatto che la condotta del lavoratore deve essere di una gravità tale da non consentire la prosecuzione – nemmeno provvisoria – del rapporto di lavoro.

La gravità della condotta del lavoratore deve sussistere sia sotto un profilo oggettivo, inteso come sussistenza fattuale dell’illecito comportamentale, sia sotto un profilo soggettivo nel senso che, in relazione a quest’ultimo profilo, occorre valutare la qualità e il grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava nonché l’intensità dell’elemento psicologico che ha caratterizzato la condotta oggettivamente illegittima del lavoratore.

Nel caso in cui la condotta del lavoratore dovesse risultare oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave – così da farla venire meno – la fiducia che il datore di lavoro ripone nei suoi confronti, la giurisprudenza qualifica come legittimo il licenziamento intimato per giusta causa (cfr. Cass., 15 febbraio 2008, n. 3865).

Sussiste, quindi, giusta causa di licenziamento ogni volta in cui il lavoratore metta in atto comportamenti che per la loro gravità, valutati nel contesto del fatto concreto, siano tali da scuotere la fiducia del datore di lavoro in modo irreparabile e tale da far ritenere pregiudizievole la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro e ciò anche quando il pregiudizio economico subito dal datore di lavoro sia assente o di modesta entità (cfr. Cass., 12 aprile 2018, n. 9121; Cass., 13 marzo 2013, n. 6354; Cass., 13 febbraio 2012, n. 2013; Cass., 13 febbraio 2012, n. 2013; Cass. 8 aprile 2018, n. 8407; Cass. 9 aprile 2018, n. 9121). Nel caso poi in cui il licenziamento, intimato per giusta causa, si risolva non già in un fatto singolo bensì in una pluralità di fatti, costituisce insegnamento costante nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale ciascuno di essi autonomamente rappresenta una base idonea per giustificare la sanzione espulsiva, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (cfr., Cass. civ., 24.10.2017, n. 25154; Cass. civ., 30.05.2014, n. 12195).

L’immediatezza
Tempi di reazione del datore di lavoro
Come previsto dall’art. 2119 c.c. il licenziamento per giusta causa può essere adottato dal datore di lavoro quando ricorre una causa che non consente la prosecuzione “anche provvisoria” del rapporto di lavoro.

Ne consegue, pertanto, che dinanzi ad una grave condotta del lavoratore la reazione del datore di lavoro deve essere immediata.

L’immediatezza della reazione aziendale è, infatti, elemento essenziale ai fini della legittimità del licenziamento per giusta causa.

Il decorso di un lungo intervallo di tempo tra il momento in cui il licenziamento è stato adottato ed il momento in cui il comportamento, posto a fondamento del recesso, è stato attuato o è giunto a conoscenza del datore di lavoro Cass., 25 settembre 2002, n. 13943) può essere, infatti, qualificato come elemento idoneo a ritenere che vi sia una compatibilità tra il comportamento del lavoratore e la prosecuzione del rapporto di lavoro con una evidente incompatibilità con i requisiti previsti dall’art. 2119 c.c. (Cass., 28 settembre 2002, n. 14074).

Elementi determinanti il carattere dell’immediatezza
Il principio dell’immediatezza deve essere inteso in senso relativo in quanto, al fine di valutare se la reazione della società è stata tempestiva o meno, occorre tenere conto della specifica natura dell’illecito disciplinare nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini che sarà tanto maggiore quanto più complessa sarà l’organizzazione aziendale (cfr. Cass., 5 marzo 2013, n. 5408, in Giust. civ. mass., 2013).

In questo contesto, quindi, anche il decorso di un rilevante periodo di tempo tra la conoscenza dei fatti e la reazione del datore di lavoro può essere ritenuto congruo e non idoneo ad inficiare l’aspetto dell’immediatezza quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa giustifichi il ritardo nel provvedimento (cfr. Cass., 1 marzo 2018, n. 4881 Cass., 13 febbraio 2012, n. 1995).

La proporzionalità e la contrattazione collettiva
Il licenziamento disciplinare oltre ad essere tempestivo deve essere proporzionato nel senso che vi deve essere una proporzione tra i fatti addebitati al lavoratore e la massima sanzione inflitta.

La valutazione circa la legittimità o meno del licenziamento è rimessa all’Autorità Giudiziaria che deve valutare se la condotta del lavoratore è, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, idonea configurare l’ipotesi del licenziamento per giusta causa così come prevista dall’art. 2119 c.c. (cfr. Cass., 20 settembre 2013, n. 21633).

Nell’ambito di tale valutazione l’Autorità Giudiziaria deve, in pari tempo, anche verificare se vi è proporzione tra la condotta illegittima del lavoratore e il provvedimento espulsivo.

Elementi valutativi il carattere della proporzionalità
Nel compiere quest’ultima valutazione l’Autorità Giudiziaria deve fare riferimento anche alla modalità con cui la contrattazione collettiva qualifica la mancanza del lavoratore posta a base del recesso.

A tale riguardo è opportuno evidenziare che le previsioni della contrattazione collettiva non hanno efficacia vincolante per l’Organo Giudicante nel senso che:

se una specifica condotta non è espressamente contemplata nella contrattazione collettiva di riferimento come ipotesi di recesso ciò non preclude al datore di lavoro di intimare il recesso per giusta causa e all’Autorità Giudiziaria di qualificarlo legittimo atteso che le fattispecie previste dalla contrattazione collettiva sono esemplificative e non tassative;
se il fatto posto a base del recesso è qualificato, dalla contrattazione collettiva, come idoneo ad integrare la giusta causa ciò non è elemento di per sé idoneo a garantire la legittimità del recesso in quanto il Giudice non è vincolato da tale previsione ma deve, in ogni caso, valutare la legittimità del recesso secondo i criteri di cui all’art. 2119 c.c. (Cass., 2 marzo 2011, n. 5095).
Per contro, invece, il Giudice potrebbe essere vincolato dalla contrattazione collettiva e dichiarare il licenziamento illegittimo, in quanto sproporzionato, se il fatto posto a base del recesso rientra, come previsto dall’art. 18, comma IV, dello Statuto dei Lavoratori, “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi”. Più di recente, la Suprema Corte ha ribadito che la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 cod. civ. (Cass., 20 luglio 2018, n. 19632; Cass., 5 aprile 2017, n. 8826; Cass., 4 marzo 2013, n. 5280; Cass., 19 agosto 2004, n. 16260).

Fonte: Altalex

 

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